Possiamo chiamarla età dell’oro, o forse età del tricolore. Per dire senza timore di essere smentiti che l’Italia, fino a vent’anni fa, era la patria del ciclismo. Ce lo hanno ricordato, e ce lo ricordano ancora (per fortuna o per farci venire il magone) le repliche di RaiSport ai tempi del Covid, in attesa dell’agognata ripresa e tra le challenge virtuale sui rulli (basta, vogliamo le corse).
Qualche classica qua e là, ma soprattutto una programmazione fitta di corse a tappe: le imprese di Moser e quelle di Saronni, poi quelle di Bugno, Pantani, Simoni, Garzelli, Basso, per finire con le emozioni regalate da Vincenzo Nibali.
Video, gesta e telecronache, quelle fino ai primi anni 2000, testimoni di un ciclismo che oggi non esiste più. Avevamo i migliori tecnici, le squadre più attrezzate, un calendario ricco di corse che attirava i più forti corridori al mondo.

Quanta Italia al Giro e al Tour
La Gatorade, la Carrera, la Mapei, poi la Polti, la Mercatone Uno, la Gewiss e la Saeco in grado di essere competitive ovunque, più altri dieci-quindici team che non stavano di certo a guardare, pronti ad accogliere e far maturare i dilettanti e a prendersi la scena sia sulle strade di casa che all’estero, quando ne avevano l’opportunità.
Accanto a quelli che hanno fatto la storia e vinto i Grandi Giri e le classiche, come dimenticare nomi, anzi cognomi, come Vona, Piccoli, Cassani, Conti, Lelli, Roscioli, Zanini, Faresin, Colagè, Ferrigato, Podenzana, Tafi, Zaina, Ghirotto, Podenzana, Saligari, Coppolillo, Nardello, Noè, Guerini, Baldato, Bruseghin… e l’elenco potrebbe proseguire ancora a lungo.

Qualche numero può rendere l’idea. In quegli anni, il Giro viaggiava sul centinaio di partenti italiani. Al Giro 1997 furono addirittura 132, più di metà gruppo. L’anno scorso erano 51, e buona parte del merito di tale soglia va senz’altro a chi resiste: la Bardiani di Reverberi e l’Androni di Gianni Savio.
Che dire, poi, del Tour de France? Il nostro contingente, alla fine degli anni Novanta, sfiorava i 50 partecipanti, negli ultimi anni viaggiamo alla media di 10-15 unità. Basti pensare che nelle ultime dieci edizioni, se si escludono i sei trionfi di tappa di Nibali, abbiamo portato a casa appena 7 successi. Esattamente quanto facevamo nel ’97 e nel ’99, ma in un solo Tour. Erano gli anni delle volate di Cipollini, Minali, Baldato ma anche dei colpi di mano di Guerini, Mondini, Traversoni e Totò Commesso. Quante pedine da giocare: velocisti, cacciatori di tappe e uomini di classifica…
La crisi, il Pro Tour, do you speak English?
Poi è arrivata la crisi economica, ma soprattutto il ciclismo della globalizzazione, del Pro Tour con organici enormi, capitali stranieri, costi e budget spropositati. Le nuove preparazioni e la tecnologia, i confini allargati a Paesi privi di storia a pedali che hanno piazzato le loro (diciamolo pure, piatte) gare in un calendario illogico. L’inglese ha rimpiazzato il francese, il marketing e i diritti tv hanno preso il sopravvento sulle questioni più tecniche e ragionevoli.

Così siamo scivolati indietro: abbiamo perso le squadre, le corse, i corridori, l’appeal: solo il Giro ha saputo in parte resistere, rinnovarsi, aprirsi ma abbiamo visto tutti com’è andata a finire quando si è trattato di stilare un calendario Tour-centrico per il post-emergenza. Tutti i big saranno in Francia, a cercare di salvare (anche economicamente) un’inedita stagione. E allora, in attesa che qualcosa cambi, o che qualcuno cambi le cose, non resta che aggrapparci anche quest’anno a Vincenzo Nibali per tenere a galla l’immagine e la forza del nostro movimento.